22 Nov Il gruppo di Cartallegra
Di Raffaella Girelli; pubblicato in “Funzione gamma Journal”, n. 8. Rivista web, a cura della cattedra di Teorie e tecniche della dinamica di gruppo. Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (www.funzionegamma.edu)
Introduzione
Desidero condividere l’esperienza di gruppo, vissuta da giovani portatori di handicap mentale insieme a me, dall’ottobre 1999 al giugno 2001.
Spero così di offrire alcuni spunti di riflessione a tutti coloro che, in modi e in ruoli diversi (come professionisti, familiari, amici), si sono già avvicinati al mondo dell’handicap mentale o che hanno intenzione di farlo.
Il gruppo, di cui ero la conduttrice, ha avuto luogo una volta alla settimana nel laboratorio di Roma in cui erano inseriti i giovani.
Il laboratorio, che in quel periodo era la struttura dell’associazione “Cartallegra Onlus”, ha concluso le attività nel settembre 2001, per mancanza di fondi.
In sede preliminare, vorrei spiegare le motivazioni che mi hanno spinto a intraprendere questo lavoro psicologico-clinico. A tale scopo, fornirò, nei primi due paragrafi, alcune brevi informazioni di contesto sul laboratorio e su come è nato il mio contributo professionale, che è stato volontario.
I paragrafi successivi sono dedicati rispettivamente alla descrizione dei ragazzi membri del gruppo e del cammino psicologico percorso insieme. Quindi esaminerò il contributo della letteratura specializzata a supporto dell’esperienza psicologico – clinica qui descritta.
Perché è nata l’associazione “Cartallegra Onlus”
L’associazione “Cartallegra Onlus” nasce nel 1999 a partire da un’esigenza precisa.
La struttura aveva già una sua storia di ideatori, sostenitori economici, ragazzi inseriti e rispettive famiglie, operatori, volontari.
In un certo periodo della sua storia, nel 1999 appunto, vengono a mancare i sostegni economici degli abituali benefattori. Alcuni genitori dei ragazzi in essa inseriti decidono quindi di costituire l’associazione “Cartallegra Onlus”, assumendosi la responsabilità della gestione diretta della struttura, per tentare di garantire il permanere della sua esistenza.
Il programma riabilitativo dell’associazione, che io stessa ho progettato e che presenterò tra breve, si è potuto avvalere, quindi, dell’esperienza basata sull’attività pluriennale svolta dai ragazzi nel laboratorio, che era essenzialmente rappresentata dalla cartotecnica.
In base a tale esperienza, ho ritenuto opportuno proporre ai ragazzi ulteriori attività. In effetti, la cartotecnica, svolta isolatamente, era ormai diventata per molti di loro ripetitiva e inadeguata rispetto all’esigenza di crescere e di sperimentare le proprie capacità all’interno del laboratorio.
Tra le nuove proposte, il gruppo si configurava quale spazio di “meta-attività”, lo spazio in cui i ragazzi potevano incontrarsi, conoscersi e ri-conoscersi per quello che erano e che provavano, laddove spesso la loro esperienza relazionale, generale e soprattutto riabilitativa, era limitata ad una conoscenza basata su quello che sapevano o non sapevano fare, oppure che sapevano o non sapevano imparare a fare. Fornirò esempi di queste considerazioni nel corso della trattazione clinica. Qui intendo semplicemente spiegare che il progetto ha cercato di rispondere sia alle esigenze individuali di crescita dei ragazzi, sia a quelle del gruppo di lavoro, che essi già costituivano all’interno del laboratorio, sia a quelle delle loro famiglie, che assistevano al cambiamento nelle attese dei ragazzi nei confronti delle proprie giornate impegnate nella struttura.
Una di queste famiglie è la mia. Mia sorella Maria Claudia, una ragazza affetta da trisomia 21 libera, altrimenti detta sindrome di Down, frequentava allora il laboratorio. Desidero dedicare alcune righe a questo aspetto peculiare dell’esperienza.
Ho voluto e ritenuto opportuno assumere io stessa la conduzione del gruppo per una serie di motivi, di seguito presentati (1).
Il primo riguarda la natura del gruppo, che è stato nel periodo iniziale un gruppo di ascolto (esperienziale). Successivamente sedute di questo tipo si sono alternate a sedute di tipo psicoeducazionale. L’esperienza non si è mai caratterizzata per essere a finalità psicoterapeutica, pur avendo presentato nei ragazzi, come illustrerò in seguito, anche risvolti di questo genere.
Il secondo è relativo alla mia formazione, che è appunto di gruppo, ad orientamento psicoanalitico. Inoltre, ho letto molte volte in letteratura quanto sia duttile il gruppo quale strumento di intervento psicologico e psicoterapeutico. Mi si presentava allora l’occasione di applicare tale strumento ad un mondo emotivo e psicologico, quello dei ragazzi che desideravo aiutare appunto, che conoscevo molto meglio di altri mondi. Nello stesso tempo, mi erano anche note le aspettative e le esigenze dei genitori e dei familiari dei medesimi ragazzi, alle quali anche ho cercato di dare uno spazio, come si leggerà nel progetto.
Il terzo motivo è il cosiddetto “motivo di realtà”: sarebbe stato difficile trovare uno psicologo, con una formazione di gruppo, con esperienza nel mondo dell’handicap mentale, che si assumesse l’impegno di aderire all’iniziativa in termini volontaristici.
Il progetto di Cartallegra: le attività (2)
Nel presente paragrafo riporto la parte del progetto dell’associazione “Cartallegra Onlus”, relativa alle nuove attività riabilitative proposte per il laboratorio, in affiancamento alla cartotecnica.
Il laboratorio si offre ai ragazzi quale spazio di socializzazione e di acquisizione di competenze tali da risultare in modo sinergico incisive sul miglioramento della qualità della vita dei ragazzi e delle loro famiglie.
La scelta della cartotecnica, quale attività caratterizzante il laboratorio, era nata anni fa in base alle seguenti considerazioni, tuttora valide:
– il materiale necessario richiede bassi costi e quindi consente ampia possibilità di sperimentare l’errore da parte dei ragazzi;
– i tempi che occorrono per conseguire il prodotto finito sono brevi;
– i prodotti sono vendibili a basso costo;
– gli strumenti e i macchinari sono semplici, non pericolosi, e quindi consentono un uso diretto degli stessi da parte dei ragazzi.
I prodotti, frutto del lavoro svolto dai ragazzi in tale spazio occupazionale, vogliono essere di carattere e qualità finalizzati alla vendita.
Lo spirito-guida di ogni attività proposta ai ragazzi nel laboratorio, e da essi liberamente scelta, è che questa li veda protagonisti, ossia il più possibile attivi e partecipi in tutto il suo ciclo di realizzazione (dall’ideazione dell’oggetto da produrre, all’acquisto dei materiali necessari, alla sua produzione vera e propria).
In tale spirito ogni attività sarà anche l’occasione per rinforzare le capacità di autonomia di ognuno.
Le attività previste, e i relativi obiettivi psico-pedagogici, sono di seguito presentati.
Acquisto dei materiali, una volta al mese, con uscita guidata dal laboratorio. Obiettivo: conoscenza del territorio, dei mezzi di trasporto, di un percorso finalizzato, dell’uso del denaro.
Attività di cartotecnica, tutte le mattine. Obiettivo: acquisizione di competenze specifiche e sviluppo di un senso di sé capace e produttivo.
Attività teatrale, un pomeriggio a settimana. Obiettivo: migliorare la comunicazione, l’espressività emotiva, la creatività.
Attività di cucina, un giorno a settimana, che vede i ragazzi impegnati in ogni sua fase: decisione del menù, lista della spesa, spesa, cucina, preparazione della tavola, pasto collettivo. Obiettivo: acquisizione di competenze in cucina e nell’uso del denaro, sviluppo di un senso di sé capace e produttivo, socializzazione.
Attività di giardinaggio, una mezza mattinata a settimana. Obiettivo: acquisizione di competenze specifiche e sviluppo di un senso di sé capace e produttivo.
Attività di yoga, un’ora a settimana. Obiettivo: migliorare l’integrazione psicofisica.
Gruppo di ascolto con la psicologa, quaranta minuti a settimana. Obiettivo: facilitare la comunicazione reciproca fra i ragazzi, assicurare loro uno spazio di “meta-attività” e riflessione sia sulle esperienze emotive personali sia sulle attività svolte nel laboratorio. A richiesta, è attivabile, una volta ogni quindici giorni, uno spazio di ascolto anche per i genitori o familiari dei ragazzi (3).
Attività di vendita, almeno una volta all’anno, in un mercato aperto. Obiettivo: sviluppo del riconoscimento del valore sociale del lavoro, acquisizione di competenze riguardo all’uso del denaro.
I ragazzi (4)
All’avvio del primo anno di gruppo, i membri si conoscevano, come già detto, essendo inseriti nella medesima struttura di Cartallegra. Alcuni di essi, quelli affetti da sindrome di Down, cioè la maggioranza, avevano partecipato insieme ad attività di gruppo presso l’Associazione Italiana Persone Down.
Tali attività hanno lo scopo di rendere autonomi i partecipanti nel perseguimento di obiettivi operativi relativi alla vita quotidiana, per esempio: il raggiungimento di una meta nel territorio locale, l’uso dei mezzi di trasporto pubblici, l’acquisto e l’uso del denaro.
Si tratta quindi di esperienze di gruppo piuttosto diverse da quella che io stavo per proporre ai ragazzi. Tuttavia, voglio ricordare che, sia in base a tali esperienze, sia in base al lavoro comune svolto nel laboratorio negli anni precedenti, un livello di comunicazione fra i membri del gruppo era già in qualche misura sviluppato. Quello che mi proponevo attraverso il gruppo, come scritto nel progetto, era facilitare lo sviluppo di un altro livello di conoscenza e comunicazione fra i ragazzi, più rispondente alle esigenze affettive degli stessi e al momento di crescita che stavano attraversando.
Presenterò i ragazzi in poche righe, per motivi di spazio, non rendendo giustizia alla complessità di ognuno di loro. In questo modo, tuttavia, quale rovescio della medaglia, il lettore sarà più facilmente attento agli aspetti della loro vita relazionale, che il gruppo ha messo in luce, presentati nel prossimo paragrafo.
Ecco i ragazzi all’avvio del gruppo, per come li vedevo o conoscevo io allora e per come mi erano stati presentati dagli operatori del laboratorio.
Maria Claudia ha 21 anni e, come già detto, è affetta dalla sindrome di Down. Di aspetto sembra più piccola della sua età, è in grado di dire solo poche parole, ma di capirne molte di più, accezioni emotive incluse. Il suo contributo nell’ambito dell’attività di cartotecnica del laboratorio è limitato ad un paio di fasi del processo, quali il taglio e l’incollatura del materiale.
Marco è affetto dalla sindrome di Down e ha 25 anni. Parla in modo chiaramente comprensibile, è in grado di costruire interamente un prodotto di cartotecnica. Gli operatori del laboratorio, tuttavia, lamentano alcuni atteggiamenti comportamentali anomali di Marco, per esempio che in bagno si spoglia nudo, che quando è nervoso non vuole lavorare e può anche fare i dispetti agli altri ragazzi o agli stessi operatori e volontari. La famiglia è stata una di quelle più convinte nel dichiarare che l’attività di cartotecnica non solo era diventata assolutamente noiosa per Marco ma anche favoriva una certa sua tendenza alla ripetitività.
Manuela, di 30 anni, ha la sindrome di Down. Il linguaggio verbale è buono, completo il contributo all’attività di cartotecnica del laboratorio. Ha un problema all’anca che le impedisce una veloce deambulazione, tuttavia è autonoma in ogni movimento corporeo.
Giuseppe ha 23 anni, è affetto dalla sindrome di Down. Per molti versi si presenta simile a Maria Claudia nel laboratorio: ha un aspetto delicato e timido, parla poco, comprende il linguaggio verbale semplice, non è in grado di produrre un oggetto di cartotecnica finito.
Valentina ha 25 anni. Sa parlare, presenta dalla nascita un quadro di disturbo cognitivo non ben identificato, con alcuni aspetti problematici di relazione. A volte si chiude in attività di disegno o di lettura dei propri giornalini, che porta da casa, e si rifiuta di contribuire all’attività del laboratorio, pur essendone in grado.
Alessio è il maggiore del gruppo, ha 33 anni. È molto grosso ed alto, ha un ritardo mentale dalla nascita. Parla in modo non sempre comprensibile, comprende quello che gli operatori e i volontari gli dicono.
Flavio ha la sindrome di Down, ha 29 anni. Non parla e non si lascia toccare, ha lo sguardo spento, è grosso. Gli operatori riferiscono che in passato ha parlato. Sembra comprendere quello che gli viene detto. Contribuisce in parte all’attività di cartotecnica.
Beatrice, di 29 anni, ha la sindrome di Down. Fra le ragazze del laboratorio, è quella che veste in modo più ricercato e adulto. Sa lavorare molto bene nella cartotecnica, parla velocemente, senza scandire perfettamente le parole. Non sempre è facile capire quello che dice. Ha un livello di comprensione verbale fra i più alti all’interno del laboratorio.
Il gruppo: resoconto di un percorso psicologico
La prima seduta (4 ottobre 1999)
Da una frase di Alessio detta a me qualche giorno prima, quando ero passata al laboratorio, deduco che almeno alcuni dei ragazzi erano stati già informati dagli operatori sulla novità-gruppo.
Il giorno della prima seduta, al mio arrivo al laboratorio, trovo nella sala di cartotecnica quasi tutti i ragazzi, già predisposti al lavoro. Invito i presenti a raggiungermi nella sala adiacente per il gruppo.
Beatrice è assente e, per una fisioterapia al ginocchio, lo sarà per le prime 4 sedute. Valentina non vuole partecipare e prosegue il suo lavoro.
Arriveranno in ritardo al laboratorio e al gruppo: Manuela, Marco e Flavio.
Appena entrata sposto la scrivania che è in mezzo alla stanza e dispongo le sedie in cerchio.
I ragazzi entrano, io mi siedo su una sedia e loro a ruota sulle restanti.
Presento l’iniziativa ai ragazzi: “Sono Raffaella Girelli, sono psicologa e sono anche la sorella di Maria Claudia, come alcuni di voi sanno. Questo è un gruppo. Nel laboratorio avete molte attività: cartotecnica, teatro, cucina, yoga…il lunedì, se volete, faremo il gruppo. Qui possiamo parlare di tutto quello che volete, di come vi trovate al laboratorio e tra di voi. Potete dirmi di quando siete felici e di quando siete tristi, delle gioie e dei dispiaceri.”.
Alessio mi stupisce immediatamente in tempestività ed appropriatezza di intervento dicendo subito dopo che la madre è morta. Chiedo quando è accaduto, mi fa capire che è passato del tempo. Cerco di rimandare qualcosa di confortante rispetto a questo primo pesante contenuto emerso e dico: “Immagino che sia stato un grosso dolore per te, puoi ricordarti sempre che il bene che ti ha voluto tua madre resta con te.”. Sembra annuire. Coinvolgo il gruppo dicendo che Alessio ci ha detto una cosa per lui molto importante. Manuela lo segue a ruota dicendo che suo padre è morto e anche il suo cane e poi un altro cane e anche un suo amico della parrocchia. Ripeto più o meno le stesse cose che ho detto ad Alessio, aggiungendo che anch’io sapevo della morte del suo amico, che conoscevo, e che era dispiaciuto anche a me. Manuela annuisce in modo esplicito e deciso.
Quando arrivano Flavio e Marco ripeto chi sono io, cosa facciamo nel gruppo e riassumo brevemente cosa hanno dato al gruppo poco prima Alessio e Manuela.
Spesso guardo mia sorella seduta di fronte a me: sembra sorridere e ammiccare con gli occhi. Inizio a dire che cosa ha fatto lei quest’estate e chiedo che cosa hanno fatto gli altri (5). Mi rispondono a turno e soprattutto Manuela appare vivace e partecipativa, inoltre cerca di coinvolgere Maria Claudia.
Giuseppe dall’inizio della seduta mangia della pizza e ripetutamente dice di avere male al fegato, poi alla fronte. Nel primo caso dico che forse è troppa la pizza che sta mangiando, nel secondo invito mia sorella, che gli è seduta accanto, a fargli una carezza di conforto. Lui si protende verso Maria Claudia e sembra gradire la cosa.
Marco nel corso della seduta si è alzato per darmi un bacio sulla guancia, io l’ho ricevuto gioiosamente ma nello stesso tempo ho specificato di nuovo che siamo lì per parlare.
Subito dopo Giuseppe, Marco interviene dicendo che lui stesso ha mal di testa perché ieri sera ha fatto tardi e aggiunge, in particolare, che gli è venuto una volta quando mi ha visto accompagnare mia sorella al laboratorio. Io sento di dover restituire al gruppo qualcosa circa questi “improvvisi malanni”: mi sembrano richieste di cure, come se il gruppo mi volesse avvisare che lì ci sono vari danni, che è un gruppo un po’ malato. Dico che, a volte, abbiamo dei mali che non sono in punti precisi del corpo come in questi casi, ma che ci fanno male lo stesso, che sono dentro di noi (indicando il cuore) e che qui possiamo raccontarli.
A questo punto, Marco inizia a elencare alcuni comportamenti “anomali” degli altri membri del gruppo. Dice, per esempio, che Giuseppe strizza gli occhi, che Flavio tira fuori la lingua, che Maria Claudia digrigna i denti. Io dico che è vero, che ognuno di noi ha dei problemi, diversi. Marco afferma che dobbiamo parlare dei problemi e superarli. Lo dice guardandomi e sorridendomi con aria un po’ ironica. Chiedo se mi sta prendendo in giro, sostiene di no. Allora dico al gruppo che Marco ci sta proponendo un patto: quello di parlare dei nostri problemi per superarli insieme. Marco annuisce luminoso nel volto e propone a Flavio di fare la pace per quello che gli aveva detto prima (che tira fuori la lingua). Chiedo se vogliamo accettare la proposta di Marco e tutti affermano di sì sorridenti. Anche Flavio che non ha detto mai nulla risponde affermativamente con la testa e sembra aver capito.
Saluto dicendo che allora, accettato il patto di Marco, ci rivedremo la settimana prossima.
Nell’uscire incontro Valentina che mi sorride, le chiedo se la prossima volta vorrà partecipare anche lei e mi dice di sì.
I due anni di gruppo
Partendo dall’idea di “fare un patto” sulla proposta di Marco, idea che tutti hanno potuto capire, è iniziato il cammino fatto insieme il primo anno.
I temi emersi di maggiore rilevanza rispetto agli obiettivi del gruppo già esplicitati sono stati:
crescere vuol dire anche essere più autonomi nella vita di tutti i giorni;
comunicare non significa solo e necessariamente saper parlare;
il gruppo può aiutarci a esprimere i sentimenti e le emozioni.
Il gruppo ha permesso a ognuno dei ragazzi di trovare il proprio spazio, nel rispetto dei suoi tempi e delle sue capacità. Ognuno dei tre temi è stato segnalato con maggiore evidenza da un ragazzo piuttosto che da un altro, ma ha coinvolto tutti.
Nel secondo anno di gruppo, ho introdotto la lettura guidata di alcuni materiali sulle operazioni di vita quotidiana, l’osservazione delle foto dei ragazzi e dei loro familiari, e la visione di una videocassetta sul tema dei sentimenti (6). All’esame di questi materiali, è sempre seguita una discussione di gruppo sull’argomento di volta in volta esplorato (sedute a carattere psicoeducazionale).
In termini generali, i materiali proposti hanno rappresentato lo spunto per affrontare il tema della dell’autonomia e della crescita emotiva. Tutto questo ha avuto senso nella misura in cui l’anno precedente i ragazzi avevano comunicato liberamente nel gruppo e avevano imparato ad accettarsi di più. I piccoli problemi di comportamento elencati da Marco nel primo incontro non sono stati ignorati. Anzi, per molte volte li ho segnalati al gruppo quali esempi di espressioni e modi di comunicare dei ragazzi, cercando di rimandare agli stessi un’immagine di sé accettabile e accettata dal gruppo nel suo insieme.
Ognuno a suo modo nel corso dei mesi ha rivelato lo sviluppo di un senso di appartenenza al gruppo, anche chi non parlava, per esempio, facendosi trovare al mio arrivo già seduto in cerchio nella stanza dei nostri incontri (Maria Claudia), o segnando nel calendario del laboratorio i successivi appuntamenti con il gruppo (Alessio), o parlandone a casa con entusiasmo (Valentina), o esprimendosi direttamente nel gruppo. A questo proposito, riporto uno stralcio di seduta del secondo anno, in cui Manuela si fa portavoce del gruppo.
Manuela a un certo punto, riferendosi al gruppo, dice: “Tutti per uno”. Chiedo cosa vuol dire per lei questa espressione. Mi risponde ridendo: “La tavola rotonda”. Allora dico che la tavola di re Artù e dei cavalieri era rotonda e tutti sedevano in cerchio come noi…Lei dice ridendo di sì, le chiedo se anche per il gruppo si potrebbe dire la stessa cosa e risponde di sì.
Neri (1998) individua, nei piccoli gruppi ad orientamento analitico di adulti, senza ritardo mentale, lo stadio della comunità dei fratelli. A partire da questa fase, il gruppo si configura quale soggetto collettivo, capace di pensiero e di elaborazione emotiva. Probabilmente non è opportuno applicare qui le categorie di lettura dei fenomeni gruppali nate dall’osservazione di un contesto clinico molto diverso. Eppure l’immagine portata da Manuela del tutti per uno e della tavola rotonda ha immediatamente suscitato in me la convinzione che effettivamente il Gruppo esisteva, aveva una sua voce e un suo pensiero, che avrebbero supportato le voci e i pensieri dei suoi membri.
A proposito della gestione da parte dei ragazzi di alcune emozioni, gli operatori mi hanno riferito che Marco nel corso del primo anno di gruppo si è molto calmato e ha ridotto i suoi comportamenti provocatori. Marco ha più volte raccontato in seduta i suoi litigi con Flavio. In genere nascevano perché Marco non voleva accettare il fatto che Flavio non vuole essere toccato.
In una di queste sedute, quella precedente alla pausa delle vacanze di Pasqua del primo anno, è accaduto quanto segue.
Marco racconta che Flavio si è arrabbiato con lui questa mattina e gli ha dato un pugno alla casa famiglia da cui vengono. Flavio resta in silenzio. Manuela chiede a Flavio se è vero. Flavio non risponde ma avvertiamo tutti che è vero. Dico a Flavio che se si è arrabbiato dovrebbe dirci il perché, che chiudendo il pugno non fa capire a Marco il motivo dell’arrabbiatura e lui rimane comunque arrabbiato. Conoscendo il fare a volte dispettoso di Marco che tocca Flavio, come anche in questo momento, dico a Marco che da parte sua non dovrebbe provocarlo. Continuo a dire a Flavio che Marco ha detto più volte al gruppo che è suo amico e che gli vuole bene, che lo abbiamo visto tutti. Flavio sorride e porge il gesto di pace a Marco. Marco ricambia e poi lo porge a me ringraziandomi. Anch’io faccio il gesto della pace, poi anche con Flavio, e a partire dall’iniziativa di Manuela tutti si scambiano il gesto. Quindi ci facciamo gli auguri di Pasqua e ci salutiamo.
Mi è sembrata una cosa abbastanza straordinaria che Flavio porgesse la mano a Marco, lui così poco incline al contatto fisico. Da quel momento in poi, ha preso iniziative di questo tipo, soprattutto verso i membri del gruppo che non parlano, come Maria Claudia (per esempio, accompagnandola a sedersi sulla sedia). Non credo sia accaduto qualcosa di magico in quella seduta. Semplicemente si era creato nel tempo, evidentemente, un clima affettivo che ha permesso un importante sblocco da parte di Flavio e la rinuncia da parte di Marco a “provocare” le risposte di affetto da parte degli altri. Posso dire che Marco ha imparato a chiederle nel gruppo e nel laboratorio. Ha anche dimostrato di poter accettare le modalità altre di fornire tali risposte, per esempio il sorriso, da parte di quei membri del gruppo che non sapevano verbalizzarle (Giuseppe, Maria Claudia).
In altri termini, ciò che ha accomunato i ragazzi nel percorso di gruppo è stata la possibilità di entrare in contatto con nuovi modi di esprimersi e di essere in relazione. Queste nuove capacità relazionali hanno trovato riscontro positivo, di volta di volta, da parte del gruppo, di un singolo membro o da parte mia. In questo senso, vorrei ricordare quanto scrive C. Neri (1998, p. 145) sul processo di “animazione” (7): “Un altro effetto del gruppo sulle persone che vi prendono parte stabilendo un positivo rapporto […] certi aspetti della personalità dei pazienti da sempre presenti, ma quiescenti e inespressi, prendono vita e acquistano profondità e intensità. ”.
Come spiegherò a conclusione di questo lavoro, trovo che il processo di animazione abbia costituito l’esperienza fondante del percorso trasformativo dei ragazzi nel corso del gruppo.
Uno sguardo alla letteratura
È ormai ampiamente documentato dalla letteratura internazionale che il gruppo possa costituire un efficace strumento di intervento per gli adolescenti e i giovani adulti. Anche limitando l’indagine ai soli contributi di orientamento analitico, essi sono numerosi. Gli autori hanno posto l’accento su compiti evolutivi diversi che l’adolescente è impegnato ad affrontare, tutti inerenti al complesso processo trasformativo proprio di questa fase del ciclo vitale. In ogni caso, i medesimi autori hanno trovato nel gruppo lo strumento elettivo per sostenere l’adolescente.
Tra i numerosi contributi in lingua inglese, segnalo quelli di: Cramer Azima e Richmond (1988, 1989), Tuttman (1991), MacLennan e Dies (1992), Dwivedi (1993), Rachman (1995), Kymissis e Halperin (1996).
Anche in Italia, i gruppi di intervento psicologico e psicoterapeutico per adolescenti hanno una propria tradizione, anche se meno consolidata.
Una rassegna degli articoli italiani dedicati a tali esperienze si trova in un capitolo appositamente dedicato all’interno del testo di Lo Verso e Raia (1998).
Il gruppo esperienziale, inoltre, è stato adottato in ambito scolastico per prevenire il disagio e l’abbandono da parte dei ragazzi (cfr. M. Bernabei, R. Girelli e C. Neri 1999).
Per citare un esempio applicativo nei reparti psichiatrici per adolescenti, ricordo l’esperienza di gruppo proposta da Bosi, Benvenuti, Gallo, Jozia e Carratelli (2000, p. 180), in cui il gruppo ha svolto la funzione “sia da oggetto sé rispecchiante, sia da oggetto sé ideale ed onnipotente, sia da oggetto sé gemellare (8) […laddove, ivi p. 178] La patologia grave è caratterizzata essenzialmente da una discontinuità, frammentazione, mancanza di integrazione, continuità e vitalizzazione, di una funzione essenziale di fondo che definiamo Sé”.
Purtroppo i gruppi esperienziali o squisitamente psicoterapeutici con giovani portatori di handicap mentale sono molto meno numerosi.
In particolare, McCormack e Sinason (1997, pp. 186-187) denunciano la scissione presente nel mondo sanitario che riguarda gli interventi per persone senza ritardo e con ritardo: “Vi è una netta separazione tra operatori di salute mentale tradizionali, con formazione ed esperienza di terapia psicodinamica o cognitivista individuale, di gruppo o della famiglia, e persone che hanno la capacità emotiva di stare con persone ritardate, ma che non hanno alcuna formazione in questi ambiti. Questo cordon sanitaire è stato perpetuato dal diffuso diniego del fatto che bambini, adolescenti, e adulti con handicap grave e profondo abbiano dei sentimenti […] anche se ora si sta iniziando a mettere in dubbio questa concezione errata.”.
Gli stessi autori sono convinti della similarità fra i processi gruppali di adolescenti “normali” e di adolescenti con handicap, la cui differenza è solo relativa ai tempi di svolgimento (ivi, p. 196): “A parte il contenuto del materiale di gruppo, il processo segue strettamente quello di altri gruppi […] Ciascuno stadio è però più lungo a causa delle carenze cognitive reali dei pazienti e della loro difficoltà nei processi di pensiero.”. I due autori concludono l’articolo affermando che bambini e adulti con handicap mentale possono avvalersi dell’intervento di gruppo. Il loro modello di riferimento è ad orientamento psicoanalitico, così come le esperienze di gruppo descritte nella letteratura specializzata cui fanno riferimento. In questo senso, il loro contributo mi sembra assai rilevante, considerato che, come loro stessi ricordano, la psicoanalisi tradizionale ha considerato per molto tempo le persone disabili con un mondo interno troppo “povero” per potersi avvalere di un intervento psicoterapeutico.
Fra i contributi italiani, è noto che Levi ha espresso la propria convinzione circa la sofferenza mentale dei bambini con gravi disturbi dell’apprendimento.
È possibile osservare che tale sofferenza non è intrinsecamente legata al ritardo mentale, bensì correlata ad aspetti secondari dello stesso, quali la vergogna sociale, la difficoltà di costruire un adeguato senso di autostima.
Da questo punto di vista, il gruppo, rispetto ad altri strumenti terapeutici, presenta il valore aggiunto di intervenire contemporaneamente su più livelli: relazionale, cognitivo, affettivo. Stoppa, Mascellani, Tartari e Giorgi (2000, p. 680), per esempio, ne segnalano l’efficacia per i bambini con disturbi dell’apprendimento, proprio in virtù della possibilità di realizzare in questo setting delle situazioni di apprendimento collaborativo, in cui: “L’interazione gruppale […] diventa una messa in comune di esperienze individuali che può produrre cambiamenti nel funzionamento del concetto di sé; attraverso le identificazioni nel gruppo la persona è accettata al di là della propria efficienza […] le condizioni di inadeguatezza, di diversità e di solitudine, vengono ri-comprese.”.
Considerazioni conclusive
I ragazzi di cui ho scritto in questo lavoro, prima di partecipare al gruppo, avevano passato molto del loro tempo in laboratorio a costruire oggetti di cartone colorato. Tale attività aveva senz’altro consentito loro di sviluppare competenze tecniche nonché una qualche capacità di produttività autonoma. I ragazzi, tuttavia, pur essendo tutti da tempo entrati in una dimensione di vita adolescenziale se non di giovani adulti, presentavano un’esperienza e una conoscenza reciproca piuttosto carente sul piano di quell’abilità nelle relazioni interpersonali che D. Goleman (1995) ha definito intelligenza emotiva.
Tale capacità relazionale è proprio quella che, a mio avviso, anche quale sorella di Maria Claudia, poteva consentire un salto di qualità nella vita dei ragazzi, indipendentemente dal loro livello intellettivo strettamente inteso.
La mia ipotesi di partenza riguardava dunque l’efficacia del gruppo quale spazio-strumento di sviluppo dell’intelligenza emotiva di giovani con ritardo mentale.
Rispetto a questa esperienza di gruppo, nonostante il riscontro positivo ottenuto sul piano del comportamento e del benessere psicologico dei ragazzi, non mi sento di trarre delle vere e proprie conclusioni. Tuttavia, alcune delle considerazioni da me riportate, a proposito del percorso trasformativo che si è verificato nel gruppo, sono confermate, come si è visto, dalla letteratura specializzata.
Inoltre, volendo sintetizzare in un fenomeno principale tutto quello che è accaduto in questi due anni nel gruppo, mi sembra particolarmente efficace quello di “animazione”, individuato da C. Neri (1998) e già ricordato in questo lavoro. Si tratta del processo tramite il quale la persona, grazie alla intensa partecipazione affettiva alla vita di gruppo e all’incontro-confronto con modi di pensare molto diversi da quelli della propria famiglia e del proprio ambiente, riesce a sperimentare e integrare nella propria personalità parti autentiche di sé, altrimenti difficilmente esprimibili e quindi non vissute. Credo che il gruppo abbia rappresentato proprio tale opportunità per i ragazzi di Cartallegra.
Questo dovrebbe contribuire a superare certe resistenze, ancora in parte presenti, a proporre interventi di tipo psicologico o psicoterapeutico per i portatori di handicap mentale, tali da non includere sempre e soltanto percorsi di apprendimento cognitivo, inteso nel senso più stretto del termine.
Note
(1) L’opportunità di questa scelta mi è stata confermata dal supervisore clinico che mi ha seguito nel corso del primo anno di gruppo.
(2) Desidero ringraziare Anna Contardi, coordinatore nazionale dell’AIPD-onlus per i preziosi consigli ricevuti al momento della stesura del progetto dell’associazione “Cartallegra Onlus” nel 1999. L’interesse di Anna Contardi nei confronti del laboratorio non era comunque nuovo, essendo stata la promotrice, anni prima, dell’attività di cartotecnica nella fase di avvio della struttura.
(3) In realtà, nessuno dei genitori o dei familiari dei ragazzi ha richiesto un incontro singolo con me nei due anni di gruppo. Alla fine del primo anno di attività del gruppo, su richiesta del responsabile del laboratorio, ho organizzato un incontro collettivo con i genitori dei ragazzi. In tale riunione, ho fornito una prima restituzione sull’esperienza di gruppo e ho cercato di indagare l’impatto della stessa sulle famiglie dei ragazzi. Nel complesso, i genitori si erano mostrati soddisfatti e avevano espresso l’adesione al proseguimento dell’iniziativa per l’anno successivo.
(4) Nel corso del presente lavoro, a tutela della privacy dei membri del gruppo, si sono cambiati i nomi propri dei ragazzi. Fa eccezione il nome di mia sorella Maria Claudia, per mantenere il quale ho ottenuto personalmente il consenso del suo tutore legale.
(5) Il laboratorio aveva ripreso da pochi giorni le attivita’ dopo la pausa estiva.
(6) Il film in questione è stato realizzato a cura dell’AIPD-onlus e della Fondazione Italiana Verso il Futuro. Il titolo è “A proposito di sentimenti”, i protagonisti sono dei ragazzi con la Sindrome di Down che raccontano le loro esperienze di coppia.
(7) Il contesto clinico di riferimento dell’autore è quello già indicato quale piccolo gruppo ad orientamento analitico con adulti (non portatori di handicap).
(8) Per un approfondimento sulle funzioni del gruppo quale oggetto sé, cfr. C. Neri (1998); I. N. H. Harwood, M. Pines (1998).
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