17 Feb Io e Francesco
Non so perché in quasi due anni di ml non mi sia capitato di raccontare di me e di mio fratello.
Sarà forse perché è successo tante volte nei gruppi di auto aiuto a cui ho partecipato nello stesso periodo e negli anni addietro, o forse, più probabilmente, perché non mi sono sentito di farlo e quelle poche volte in cui me la sono sentita o è passato l’attimo o non me la sono sentita di sentirmela.
Tanto è vero che anche quel poco che racconterò oggi ha vagato per oltre una settimana nella mia memoria prima che mi decidessi a scriverlo.
Spero, sia per me che per voi, di non aver perso tutta la carica emotiva suscitata da quel breve attimo di estasi.
E’ stato di venerdì, verso l’una. Francesco a McDonald’s copre un orario giornaliero di quattro ore, dalle 9.30 alle 13.30, facendo riposo il martedì e la domenica. Da familiare, da fratello, anch’io talvolta faccio fatica a filtrare i suoi umori quando al ritorno dal lavoro ti riversa addosso l’ostilità accumulata dacché la mattina alle 8.20 è uscito di casa. La doccia “ogni” giorno (un’utopia), l’autobus che non passa mai, le macchine che suonano il clacson, i motorini che cadono e lo impauriscono, i colleghi che lo sollecitano e lo punzecchiano se lo vedono insonnolito: un resoconto preciso di tutto ciò che lo ha infastidito o che non è andato come avrebbe voluto viene rigurgitato appena ha varcato l’ingresso.
Ora non vivo più a casa dei miei, e quelle lamentele le sento di rado e in differita. Eppure, oggi come allora (saranno ormai otto anni che Francesco lavora al McDonald’s di Piazza Sonnino), so che qualcosa di storto nella sua mattinata lavorativa c’è stato, più o meno. E oggi come allora so anche che mio fratello è in buona compagnia, non essendo certo l’unico impiegato a dover confrontarsi ogni giorno con gli inconvenienti del lavoro, gli umori dei colleghi, il sarcasmo dei superiori; anzi, oltre al saltuario ascolto delle sue rimostranze, oggi mi tocca sorbirmi quelle pressoché quotidiane della mia convivente. Precisazione che mi agevola nell’operare l’immancabile livellamento tra Francesco e una qualsiasi altra persona: tutti, lui compreso, hanno il proprio da fare per fronteggiare le insidie di una giornata lavorativa. Di qui all’altra precisazione, sacrosanta, secondo cui in realtà per le nostre sorelle e i nostri fratelli, con una leggera sfumatura di generalità, la questione è un po’ diversa, restando essi sempre e comunque (con buona pace di certi operatori) delle persone con ritardo mentale. Fino alla precisazione conclusiva, un po’ salomonica, ma che preferisco, secondo cui, in fondo, siamo tutti profondamente diversi.
Assolto ogni compito di profilassi liberalprogressista e immolato il mio tributo alla banalità, posso tornare a parlare di quel venerdì, non senza aver ben chiaro il disagio nel tornarci, cui peraltro si deve il mucchio di scempiaggini scritto finora.
Francesco doveva lavorare ancora mezz’ora, sicché, dopo essermi intrufolato, mi sono sistemato a ridosso dell’entrata, senza farmi notare, osservandolo mentre si dava da fare con le “bibite”. E’ la sua mansione abituale all’interno dell’organigramma fastfoodistico, il suo anello nella catena globale. Insomma, amici miei, che vi devo dire: se avessi, come non ho, la tendenza a tirar fuori le mie emozioni in modo naturale e istintivo, di lì a venti secondi i miei occhi si sarebbero bagnati di lacrime, la vista si sarebbe appannata e avrei dovuto palpare nella tasca del cappotto il primo fazzoletto, sporco, per asciugare prontamente quei rivoli karmici. Invece, arido come il feltro, me ne sono stato lì, fra l’inebetito e l’estatico a guardare mio fratello che spillava coca-cola, annuiva a se stesso per l’operazione portata a termine con successo e si accingeva a ricominciare daccapo. Era così rassicurante vederlo integrato – quanti termini mi sarei risparmiato se non fossi il fratello di una persona disabile… – tra i suoi colleghi, i quali, a onor del vero, oltre a stuzzicarlo lo trattano con rispetto e gli vogliono bene; così appagante sapere che anche quando non è con la sua famiglia, con me (dico: con me!), può essere al sicuro, rendersi utile, trovare il suo spazio, lui che è così indifeso, manipolabile, remissivo (ma quando vuole inattaccabile, saldo, agguerrito).
L’incognito è durato non più di cinque minuti: tanto gli ci è voluto per guardarsi intorno e capire che suo fratello era lì. Ma ve lo dico dal profondo del cuore: sono stati cinque minuti bellissimi, emozioni allo stato puro, cristalline, un’iperbole di fierezza, impotenza e felicità, fino al momento culminante, quando ho creduto di alzarmi lentamente da terra, a mo’ di quei sensitivi messicani che asseriscono di acquisire, nel momento di massima concentrazione, e dopo una buona dose di mescalina, la facoltà di librarsi nell’aria. Passati quei cinque minuti da voyeur incallito, quando ormai dovevo aver assunto la posa di un manichino passato di moda, Francesco si è voltato dalla mia parte, mi ha guardato per un istante, si è rigirato verso il bicchiere di sprite ormai quasi pieno, ha fissato il vuoto per capire se i suoi occhi esotici l’avessero tradito, si è rivoltato verso di me e si è abbandonato al più straordinario, pieno, autentico dei sorrisi.
Di lì a due secondi: l’incognito era smascherato, la mia estasi passata, e la sprite traboccata.
Giulio I.