La famiglia con persona disabile o famiglia disabile?

Roma 18 febbraio 2006-02-1.
Anna Serena Zambon

Caro Pietro Contessa, caro Nicola Panocchia, cari tutti,
mi scuso enormemente di non poter essere con voi.
Ho scritto quello che avrei detto su due pagine che ho inviato a Carla Fermariello pregandola di leggerlo a voi.
Il bel titolo del mio intervento che è stato scelto dagli organizzatori centra un problema assai frequente che è quello dei preconcetti sulle famiglie di persone con disabilità. Si tratta di teorie che attribuiscono qualsiasi problema all’interno della famiglia, alla presenza di una persona con disabilità che rischia di diventare l’artefice di ogni possibile disagio.
Naturalmente al momento della diagnosi i genitori dovranno affrontare momenti difficili. Il modo che avrà il medico di comunicare, di spiegare e di prevedere, sarà determinante nell’aiutare o meno i genitori ad affrontare un’esperienza difficile, sia che si tratti di diagnosi certa alla nascita, che di una diagnosi meno chiara che si protrae nel tempo.
Dunque i genitori affronteranno dei momenti duri. Ma allo stesso tempo il loro bambino diventerà sempre più saldamente il loro figlio o figlia, con cui nonostante i problemi, potranno stabilire sempre più forti legami affettivi.

Possiamo parlare dunque di una fase critica al momento o durante il “periodo” della diagnosi, a cui seguirà una lunga fase di adattamento in cui i genitori riusciranno a riorganizzare i loro pensieri e le loro emozioni rispetto a un figlio diverso dal quel figlio o figlia senza problemi fisici o mentali che speravano di avere. Col tempo prenderà forma una riorganizzazione mentale che renderà minore e quindi più accettabile il disagio legato al problema del figlio.
Naturalmente ci sarà un’alternanza tra momenti di scoraggiamento e momenti di maggiore serenità in cui potranno prevalere la speranza e un sano spirito combattivo e costruttivo che caratterizza tante famiglie di una persona con una disabilità.

Ma vediamo cosa dicono le ricerche sulla famiglia.
Dagli anni ’70 ad oggi gli studi sulla famiglia si possono dividere in due gruppi.
Un primo gruppo ancora assai numeroso riguarda una raccolta di dati sulla salute fisica e mentale e sull’inserimento sociale delle famiglie.
Come sappiamo, per fare una ricerca è necessario un termine di paragone, ma queste famiglie sono state studiate senza alcun gruppo di controllo, come se la famiglia di una persona con una disabilità dovesse divenire un’entità a sé stante e dunque non paragonabile per sofferenza a nessun’ altra famiglia o tutt’al più a famiglie di persone con un altro tipo di disabilità. Vediamo quindi che i preconcetti riguardano in primo luogo i ricercatori.
Sui fratelli e sulle sorelle si continuano a fare ricerche con questo stesso metodo assai poco scientifico, attribuendo dunque qualsiasi problema alla presenza di un fratello o sorella con una disabilità.
Vorrei citare invece una ricerca storica che è la prima eseguita in modo rigoroso da un punto di vista scientifico su famiglie di bambini con SD. Su questa ricerca si basano ancora oggi gli studi più seri sulle famiglie di persone con vari tipi di disabilità.
Si tratta del lavoro di Cliff Cunningham che dall’inizio degli anni settanta al 2005, ha paragonato un gruppo di 160 famiglie in cui era nato un bambino con SD a un gruppo di famiglie in cui era nato un bambino senza SD.

I due gruppi di famiglie erano analoghi per quello che riguarda l’età, il livello sociale, economico e culturale. Posto che la sofferenza individuale profonda non è quantificabile e dunque non è paragonabile, sono stati individuate delle variabili facilmente valutabili e che indicassero i livelli di funzionalità delle famiglie. Ad esempio la salute fisica e psichica di ogni membro della famiglia, la qualità del rapporto di coppia, la quantità di separazioni o meno, rapporti sociali fuori dal gruppo familiare, la presenza di amici, cene fuori casa, cinema, teatro, impegno sociale, attività fisica e così via.

Si è visto che i risultati dei due gruppi di famiglie con e senza SD, sono sovrapponibili e quindi fondamentalmente uguali. Lo stesso risultato si è avuto da ricerche eseguite con la metodologia di Cunningham su altri tipi di disabilità
Ma l’aspetto più interessante è che se ci sono differenze sono spesso in positivo: nelle famiglie di una persona con problemi può esserci una maggiore consapevolezza sociale e psicologica, più impegno sociale, meno razzismo.

In particolare sono interessanti i risultati di questa e altre ricerche sui fratelli e sorelle di persone con SD sui i quali sono emersi numerosi aspetti positivi: possono essere più affettuosi col fratello con SD che con gli altri fratelli mostrandosi fieri delle sue conquiste e dei suoi success più maturi socialmente e in grado di manifestare comprensione per le differenze individuali delle persone più flessibili e in grado di tollerare i cambiamenti più riflessivi possono essere più responsabili, più affettuosi, più generosi.

Secondo questa e altre ricerche ci sono meno separazioni nella coppia, contro uno dei tanti preconcetti secondo cui ci sono più divorzi tra coppie che hanno avuto un figlio con problemi.
Un evento traumatico di qualsiasi tipo viene affrontato dalla famiglia in base alla qualità del rapporto preesistente. Dunque un bambino con una disabilità può saldare un rapporto buono o venire strumentalizzato dai genitori per giustificare una rottura già in atto.
Quando ci sono problemi, l’origine va ricercata altrove. Quello che può danneggiare una famiglia è un rapporto difficile nella coppia, l’incapacità di comunicare e la mancanza di rispetto per l’identità e le esigenze di ognuno.

Una persona con una disabilità costringe la famiglia a porsi delle domande, a riflettere su vari aspetti educativi e psicologici, a sviluppare maggiori capacità introspettive sul proprio ruolo come genitori e a favorire una maggiore comunicazione.

Non solo all’interno della famiglia, ma anche dal punto di vista sociale, dobbiamo ricordare il contributo fondamentale delle famiglie nel promuovere attraverso varie associazioni e interventi, il progresso in campo medico, legislativo e culturale. Purtroppo le famiglie hanno spesso dovuto fare una battaglia ulteriore perché i cambiamenti avvenissero davvero e perché le leggi fossero veramente applicate.
In questo senso vedo con ottimismo la creazione di gruppi di auto aiuto.
Nel nostro paese abbiamo leggi sulla sanità e sull’inserimento scolastico che ci invidiano in tutto il mondo. Nella famosa università di Harvard si studiano le leggi italiane sul diritto della famiglia come un gioiello. E potrei continuare a lungo. Il famoso genio italiano purtroppo appare più su carte e documenti che tra di noi

Io vedo i gruppi di auto aiuto come la possibilità di comunicare, informarsi e impegnarsi per ottenere quello che spetta di diritto. Fatti concreti dunque è quello di cui hanno più bisogno le famiglie. Grazie