Tutto a posto

Doveva arrivare, prima o poi, il momento che sto per raccontarvi.
Una ventina di giorni fa, me ne sto seduto con Alberto e Andrea, i miei figli di 3 e 6 anni, al tavolo di un chiosco del Circeo a mangiare un panino, in mezzo a uno dei quindici giorni di vacanza nei quali sono insieme a me.
Chiacchieriamo, aspettando con impazienza che arrivino i tre supplì d’ordinanza, e mentre rubo prima del cibo solido un sorsetto di birra fredda Andrea scandisce la domanda che mi aspettavo ormai da un po’.

“Papà, ma lo zio Antonio ha una malattia?”

Fronteggio coscenziosamente il rinculo della birra nella glottide, ingoio, tossisco, mi ricompongo. Meno male che me l’aspettavo.
“Non proprio una malattia, ciccio. Te n’eri accorto da un pezzo e me l’hai chiesto solo oggi, oppure è una cosa che hai capito da poco?”
“Da un pochino. Ma ha la stessa malattia di Maria Claudia, la sorella di Federico?”
Metto insieme mentalmente tutto quello che so sulla sindrome di down: prima di tutto precisione, anche nella semplicità che la circostanza richiede.

Attacco il discorso che tante volte avevo immaginato di cominciare, e la rincorsa dev’essere discreta, perché le parole mi vengono fuori piuttosto chiare, Andrea sembra interessato e perfino Alberto interrompe le sue rimostranze per il ritardo del supplì e mi ascolta con la faccia seria e giudiziosa.
Un quarto d’ora scarso, poi la spiegazione finisce. Seguono un paio di minuti di silenzio. Poi Andrea commenta.

“Insomma, non sa parlare, cammina maluccio, non fa sport, non lavora, non va a scuola, non ha la fidanzata, ma per il resto è tutto a posto, giusto?”

Sorrido. E’ un buon modo per dirlo. Forse migliore del mio.

Alessandro Capriccioli, 37, Roma

Fratello di Antonio, SD