Vita adulta e Sindrome di Down

Vita adulta e Sindrome di Down*
Spunti per una riflessione comune

di Federico Girelli; pubblicato in Sindrome Down Notizie, 2002, n. 3, p. 23

Per individuare gli aspetti che connotano la vita di una persona con SD adulta credo sia opportuno tentare di focalizzare quando e come una persona con Sindrome di Down diventi “adulta”. Si tratta di comprendere che cosa significa vivere da “adulti” e soprattutto che cosa si può fare per garantire la miglior “qualità della vita” ad una persona con SD adulta. Arriverò subito a quello che mi sembra essere il nodo centrale: una vita da “adulti” non si improvvisa. Com’è noto ogni traguardo raggiunto dai nostri ragazzi è la conclusione di un cammino in genere lento ed il frutto del massimo impegno Loro e di chi li assiste. Circa l’inserimento lavorativo, questione ineludibile quando si parla di vita adulta ma troppo ampia per trovare in questa sede esaustiva trattazione, quello che a me preme sottolineare è come sia importante pensare anche a laboratori che costituiscano, quando possibile, un momento di transizione tra la scuola ed il lavoro, ma soprattutto una soluzione per quelle persone con SD che, finita la scuola dell’obbligo, spesso non sanno come impegnare attivamente il proprio tempo in quanto non hanno né possono avere prospettive di lavoro perché oggettivamente inidonee a svolgere una prestazione lavorativa.

Una ottima esperienza in questo senso, almeno a Roma, è stata quella del laboratorio “Cartallegra” ove oltre ad imparare a lavorare la carta si faceva yoga, teatro, giardinaggio, etc.. (nell’ottobre del 2001 purtroppo le attività sono cessate per mancanza di fondi, i ragazzi che frequentavano il laboratorio comunque sono stati inseriti in altri contesti dove hanno potuto continuare a sviluppare le proprie attitudini). In ogni modo, perché una persona con SD possa essere avviata al lavoro non basta, per esempio, che abbia trent’anni e si esprima in modo sostanzialmente corretto, ma occorre che abbia acquisito un certo senso di responsabilità, che conosca la differenza tra uno stipendio ed una paghetta e abbia il desiderio di uno stipendio e non di una paghetta, che sappia accettare che un’altra persona gli dica che cosa deve fare e che il suo compito deve svolgerlo con diligenza, etc., tante cose insomma che a volte non è bene dare per scontate neanche per chi il cromosoma in più non ce l’ha. Ed allora ben vengano il corso di autonomia per gli adolescenti con SD tenuto presso diverse sezioni dell’AIPD o le esperienze analoghe condotte in altre realtà nonché il “Club Adulti” perché le persone con SD che oggi hanno trent’anni o più, purtroppo, quando ne avevano quindici o sedici non hanno avuto le stesse opportunità di chi è adolescente oggi.

Un profilo comunque mi sembra importante: questo genere di attività è proficuo non solo per i ragazzi con SD ma anche per noi familiari (non dico genitori perché io sono un fratello), per noi, dicevo, in quanto sono l’occasione per trovare un vero e proprio sostegno nell’affrontare i problemi che possono seguire al vivere la vita in modo più adulto. Per esempio: una volta che un ragazzo/a ha il desiderio di uscire da solo, vuole prendere i mezzi pubblici e, siccome si sente adulto e magari è anche il fratello maggiore, vuole anche le chiavi di casa che vede usare già da tempo dal fratello minore. Mi rendo conto che con tutto quello che accade oggi, queste sono richieste che possano prendere in contropiede un genitore, è qui allora che intervengono gli operatori a verificare il grado di autonomia della persona e, se del caso, a rassicurare motivatamente i genitori. E’ vero, nel crescere esistono anche dei rischi e nel superare questa fase critica penso che le sorelle ed i fratelli delle persone con SD siano un valido aiuto per i propri genitori specialmente in quei delicati passaggi in cui bisogna decidere di affrontare i rischi, che sono sempre rischi calcolati, di cui ho fatto un esempio. Questo non per chissà quale lungimiranza possa avere un fratello rispetto ad un genitore, che del resto già ne ha viste tante, ma semplicemente perché il fratello ha quel diverso punto di vista che gli deriva dalla sua posizione “paritaria” rispetto alla persona con SD e che gli impedisce di considerarlo un eterno bambino non cresciuto. D’altra parte maggiori abilità conseguono i nostri ragazzi meglio vivono e soprattutto meglio vivranno “dopo di noi”. In riferimento a questa fondamentale problematica, la cui portata non consente di trattarne qui ogni implicazione, vorrei individuare almeno due aspetti che incidono profondamente sulla “qualità” della vita adulta: la cosiddetta “residenzialità” e le principali innovazioni in relazione agli strumenti di tutela approntati dall’ordinamento. Esigono senz’altro attenzione i problemi attinenti alla predisposizione di una soluzione abitativa per le persone con SD rimaste senza familiari o per quelle i cui genitori non possono materialmente occuparsi di loro, ad esempio, per via della età avanzata. In questa direzione già opera a Roma la Fondazione italiana verso il futuro, nata dall’esperienza dell’AIPD, che ha proprio lo scopo istituzionale di realizzare case-famiglia. Invero la questione non riguarda solo chi non ha più la famiglia ma anche quelle persone con SD adulte che desiderano vivere in un nucleo familiare diverso da quello di origine. Ed anche qui vale il principio per cui bisogna andare per gradi: a Roma l’AIPD ha realizzato “Casapiù” che è un esperimento di casa-famiglia, i ragazzi maggiorenni vivono infatti nella casa solo per il fine settimana, mentre la Fondazione, dopo “Casa Girasoli”, che da casa settimane è divenuta comunità alloggio permanente, ha aperto anche “Casa Fiordaliso” ove si vive per una settimana al mese insieme per due anni, prima di decidere se e con chi andare a vivere fuori casa. In questo modo la persona con SD si trova nella condizione di potersi ambientare nella nuova realtà, ma soprattutto ha l’opportunità, che dovrebbero avere tutte le persone adulte, di scegliere se abitare ancora con i propri genitori oppure andare in un’altra casa come di solito avviene. In tale ambito è evidente l’importanza del ruolo dei fratelli ai quali in genere i genitori “affidano” il proprio figlio/a con SD per il tempo in cui non ci saranno più. E in vista anche di questa circostanza appare ancor più significativo che diversi fratelli e sorelle abbiano iniziato ad incontrarsi per scambiarsi vicendevolmente le personali esperienze di vita con il proprio fratello o sorella con SD. Sarebbe opportuno infatti, nello stesso interesse della persona con SD, imparare nel corso del tempo ad affrontare quelle difficoltà che può comportare l’avere un fratello disabile anziché ad un certo punto della vita, magari già pianificata in un certo modo, ritrovarsi “affidato” un fratello con problemi di cui magari fino a quel momento si sono interessati i soli genitori. Non solo, forse proprio un fratello può riuscire a cogliere in pieno il desiderio di una vita indipendente ed adulta.

Riguardo agli strumenti di tutela penso apra nuove positive prospettive la proposta di legge in itinere sull’amministrazione di sostegno già approvata dal Senato ed attualmente al vaglio della Camera con il n. 2189. L’amministratore di sostegno è un soggetto (potrebbe essere benissimo un fratello) che dovrebbe assistere, nel nostro caso, la persona con SD in una gestione del patrimonio più consapevole rispetto a quanto consentano l’interdizione e l’inabilitazione. L’intervento dell’amministratore di sostegno, peraltro, si concentrerebbe soprattutto sulla amministrazione dei beni senza avere quel carattere di pervasività nella vita dell’assistito che invece connota l’attuale sistema di tutela. Le nuove disposizioni non sono abrogative, il nuovo istituto va ad affiancarsi ai due già esistenti, mi sembra una buona chance che alcuni dei nostri ragazzi potrebbero cogliere per trascorrere una vita più autenticamente adulta. Non si vuole certo fare del facile ottimismo, anzi; mia sorella, invero, che è interdetta in base alle norme vigenti, allo stato, con l’amministratore di sostegno ci farebbe ben poco, siamo chiamati, però, a rispondere alle esigenze di tutte le persone con SD non solo a quelle di chi è a noi più vicino, pertanto auspico che l’iter legislativo giunga quanto prima a conclusione. Ritengo poi che meriti attenzione anche il progetto di legge n. 2733 riguardante il trust a favore di soggetti portatori di handicap presentato alla Camera. Senza alcuna pretesa di esaustività mi permetto di ricordare che il trust è un istituto di origine anglosassone e che a seguito della ratifica della Convenzione de L’Aja del 1985, operata con la legge n. 364 del 1989, in Italia sono riconosciuti i trusts istituiti in base ad una normativa straniera in quanto sino ad ora una legislazione italiana in materia non è stata ancora adottata. Per trust in generale si intende la destinazione, operata da un soggetto, di un insieme di beni o di diritti ad un fine. Tale destinazione avviene con il trasferimento dei beni o dei diritti ad altro soggetto detto trustee il quale acquisisce la proprietà dei beni trasferitigli e persegue il fine indicatogli da chi gli ha ceduto i beni. Per quel che a noi interessa la vicenda vedrebbe coinvolti questi soggetti:

1. Il disponente o settlor che attribuisce i beni in trust, appunto, al trustee;
2. Il trustee (persona fisica o giuridica) che acquista in proprietà i beni e li amministra con il compito di perseguire lo scopo del trust e sottolineo che la caratteristica propria dell’istituto in parola è la “segregazione” dei beni costituenti il patrimonio del trust al raggiungimento dello scopo, detti beni infatti non si confondono con il patrimonio personale del trustee;
3. Il beneficiario che è colui che usufruisce dei vantaggi derivanti dalla costituzione del trust;
4. Il protector che ha il compito di vigilare che lo scopo del trust sia effettivamente perseguito, il progetto di legge parla di “guardiani del trust”. In sostanza il disponente attribuisce al protector propri diritti e potestà nei confronti del trustee perché andranno esercitati quando non sarà più in vita.

Il trust sembrerebbe uno strumento più efficace e meno artificioso rispetto a quelli civilistici già disponibili per provvedere all’assistenza dei soggetti disabili dopo la morte dei loro genitori. I genitori infatti potrebbero istituire un trust proprio con questo scopo. Alla morte della persona con SD (beneficiario di reddito), che segna il venir meno dello scopo del trust e quindi il suo termine, i beni patrimonio del trust vengono distribuiti ai beneficiari finali designati, nell’atto istitutivo o successivamente, che potrebbero anche essere eventuali fratelli. Questo tipo di trust poi sarebbe assoggettato nei vari passaggi ad un regime fiscale agevolato.
Credo che i diversi aspetti che succintamente si sono trattati, nonché naturalmente quello dell’affettività, trovino la loro cornice ideale nel film ormai noto “A proposito di sentimenti” realizzato dall’AIPD e dalla Fondazione italiana verso il futuro. I protagonisti del film, specie quelli più disinvolti, non sono nati “imparati”, quanto il film mostra è il risultato di un impegno cominciato ben prima della loro attuale “vita adulta” che li vede fidanzati o alle prese con un lavoro vero. Nelle occasioni in cui mi è capitato di presentare il film ho sempre detto che la ragazza che racconta di come si dà da fare in casa probabilmente avrà bruciato non poche camicie prima di imparare a stirare così bene. Al di là del film ritengo che stia a noi dare ai nostri ragazzi tutte le chances perché possano essere in grado di affrontare al meglio una vita da adulti anche al costo di qualche “camicia bruciata”.

Federico Girelli
Fratello di Maria Claudia

* Il testo, successivamente aggiornato, riproduce il contenuto della relazione introduttiva del tema “vita adulta” svolta allora in qualità di Vice-Presidente AIPD al 1° Convegno di tutte le associazioni che in Italia si occupano di Sindrome di Down, organizzato dall’AIPD a Roma nei giorni 25/26 novembre 2000.